Percorso diagnostico

La prescrizione, l’esecuzione e soprattutto l’interpretazione dei test allergici richiedono un bagaglio culturale specifico e esperienza nel campo non potendosi tutto risolvere in una acritica meccanica operazione di prescrizioni farmacologiche e dietetiche in funzione dei risultati. Nel vivere quotidiano del pediatra allergologo è, viceversa, esperienza comune osservare esami allergologici consigliati per motivazioni del tutto non pertinenti, richieste di consulenze allergologiche non giustificate, test allergologici, soprattutto quelli sul sangue che molto spesso permettono di by-passare l’allergologo, valutati acriticamente senza tener conto, ad esempio, della stagionalità di certe patologie o della non significatività, soprattutto per certi valori, dei test per gli alimenti.
Il percorso diagnostico in allergologia deve essere rigoroso. Nell’iter diagnostico delle malattie allergiche i primi e principali passi sono, come sempre in medicina:

– l’anamnesi, cioè la raccolta delle notizie riguardanti la storia familiare e personale del bambino, la malattie pregresse in generale ed in particolare quelle attinenti al campo allergologico, la storia della malattia attuale, con i suoi caratteri, le caratteristiche della sua insorgenza, la sua stagionalità, qualora sia presente, i fattori scatenanti o accentuanti, gli effetti delle terapie, le malattie concomitanti.

– l’esame clinico, cioè un’accurata visita medica che oltre a valutare l’organo o l’apparato direttamente interessato non escluda la valutazione anche di altri apparati. Infatti, potrebbe essere possibile cogliere delle malattie concomitanti (all’asma, per esempio si associa spesso la rinite, e viceversa) o rilevare dei segni che permettono di inquadrare giustamente una certa malattia (ad esempio manifestazioni cutanee di dermatite atopica possono far interpretare come allergiche una tosse persistente, una diarrea cronica etc.). I test, cutanei o ematici, rappresentano un passo successivo nel percorso verso la diagnosi e non vanno interpretati come valori assoluti ma vanno valorizzati solo se inseriti in un contesto globale e se compatibili con i dati che emergono dall’anamnesi e dall’esame clinico.

Quali sono i test

I test usualmente impiegati in prima battuta sono test cutanei e sul sangue. I test cutanei sono i prick test. Essi consistono nel pungere la cute, con degli aghetti particolari, attraverso una goccia di liquido contenente la sostanza da testare posta sulla cute dell’avambraccio. Usualmente si testano più sostanze per ogni seduta. La risposta positiva al test consiste nella comparsa di un gonfiore (pomfo) misurabile. Il test si considera positivo, cioè il bambino è sensibilizzato a quella certa sostanza (si badi bene sensibilizzato e non necessariamente allergico, come si vedrà più avanti!) se il pomfo ha un diametro superiore ad un certa misura (determinazione quantitativa espressa in mm. di diametro); la valutazione può anche essere fatta comparando il diametro del pomfo relativo alla sostanza testata con quello di un pomfo di riferimento indotto da una sostanza chiamata istamina: in questo caso la positività è espressa con crocette secondo una scala prefissata (determinazione qualitativa). I test cutanei così descritti possono essere eseguiti non solo utilizzando “gli estratti”, soluzioni delle sostanze potenzialmente in grado di dare allergia, messi a disposizione dall’industria farmaceutica ma per gli alimenti si possono eseguire direttamente utilizzando gli alimenti stessi. In questi casi si parla di prick by prick. Questa tecnica viene usualmente utilizzata per frutta e vegetali (ma si può usare in realtà per qualsiasi alimento) e consiste nel pungere la cute dell’avambraccio dopo aver immerso l’ago nell’alimento stesso, se liquido, o dopo aver punto l’alimento da testare, se solido.
I test sul sangue dovrebbero essere eseguiti solo in quelle particolari condizioni, come ad esempio quando il bambino sta assumendo farmaci antistaminici o presenta malattie della pelle molto estese, o ha avuto delle reazioni allergiche molto gravi, in cui non possono essere eseguiti i prick test. Al di fuori di queste particolari situazioni per accertare la presenza o meno di una sensibilizzazione allergica si dovrebbero eseguire, prima di tutto, i prick. I test sulla cute sono cioè preferibili e ciò non solo per motivi economici ma anche perché con i prick si possono testare molte sostanze contemporaneamente, la risposta è praticamente immediata, e soprattutto perché si tratta di test più “specifici”. Meno frequentemente di quanto accada con i test sul sangue, in altre parole, può accadere che alla positività del test non corrisponda una vera allergia ma, viceversa, più spesso chi è positivo al test sulla pelle è veramente allergico. Con il test sul sangue si ricerca la presenza nel sangue stesso del paziente di particolari tipi di anticorpi, le cosiddette IgE specifiche, che sono coinvolte nelle reazioni allergiche di un certo tipo (cosiddette reazioni di I° tipo o IgE-mediate). La determinazione di queste IgE avviene con metodiche diverse (RAST, IMMUNOCAP, ELISA). La presenza nel sangue di IgE specifiche dirette verso una specifica sostanza viene espressa sia in termini numerici che secondo una classificazione in classi. Per semplicità si usa chiamare il test della ricerca sul siero di sangue di queste IgE specifiche per le varie sostanze con il nome della metodica usata; generalmente si usa parlare di RAST.
I RAST dunque consistono sostanzialmente nella dimostrazione della presenza nel sangue del paziente delle IgE specificamente dirette verso determinate sostanze potenzialmente allergizzanti (allergeni) e nella loro misurazione. Identico target hanno anche le metodiche cutanee. Sia i prick che i prick by prick, infatti, sono in grado di determinare la formazione del pomfo (cioè del gonfiore misurabile) solo se nella cute dei bambini sottoposti al test, attaccate a specifiche cellule chiamate mastociti, sono presenti le medesime IgE specifiche dirette contro le sostanze testate. In altre parole i RAST sono positivi se ci sono IgE specifiche nel sangue, i prick e i prick by prick se ci sono IgE specifiche nella pelle. Sono metodiche diverse per evidenziare in tessuti diversi la medesima sostanza: le IgE specifiche per determinati allergeni. Sono pertanto, come vedremo in seguito, test validi ed indicati per indagare un solo tipo di allergia, la allergia appunto detta IgE-mediata o di 1° tipo, quella, per intenderci responsabile di alcune forme allergiche immediate come l’anafilassi o l’orticaria. Ci possono essere però altri meccanismi alla base delle reazioni allergiche, indipendenti da codeste IgE, per i quali quindi questo tipo di indagini non ha alcuna utilità. Per esempio gran parte della patologia “allergica” gastrointestinale, dalla diarrea cronica al deficit di accrescimento, dalla malattia da reflusso gastroesofageo, alla stipsi non è normalmente sostenuta da un meccanismo allergico di tipo IgE-mediato per cui in queste malattie i test sono usualmente negativi, pur potendo gli alimenti essere responsabili dei sintomi clinici.
Per forme non IgE mediate ed, in particolare, per quelle forme allergiche in cui probabilmente è in gioco un meccanismo coinvolgente cellule particolari chiamate T linfociti, le cosiddette allergie cellulo-mediate o di IV tipo o ritardate, può essere utilizzato il patch test. E’ anch’esso un test cutaneo e viene utilizzato correntemente per la diagnosi della dermatite da contatto. Consiste nell’applicazione sulla pelle, in particolare sul dorso, di cerotti con cellette contenenti le varie sostanze da testare. I cerotti vengono lasciati aderenti alla cute per 48 ore e la lettura del test viene fatta a 48 e 72 ore. L’allergia cellulo-mediata a una qualche sostanza testata determina una reazione locale con arrossamento, gonfiore, formazione di vescicole che può essere quantificata con un punteggio da 0 a 3. In questo modo si può vedere se un soggetto con un particolare tipo di dermatite è allergico al nichel, alla gomma, ai coloranti dei tessuti etc.
Una metodica analoga viene utilizzata da qualche tempo (atopy patch test) per la dermatite atopica una frequente malattia cutanea in cui il meccanismo prevalente è spesso quello cellulo-mediato. Nel caso specifico vengono testati alimenti (latte, uovo, grano etc.) ed inalanti (acari) per valutare se questi allergeni, con una meccanismo diverso da quello delle allergie immediate IgE mediate possono essere, in qualche modo responsabili o corresponsabili della malattia. Si tratta di un test non routinario perché ancora non è stato standardizzato, codificato.
Qualcosa del genere può, in alcuni casi, essere utilizzato anche in altre malattie in cui la componente cellulo-mediata può essere preminente come in molte malattie gastrointestinali “allergiche”.

Il test positivo non sempre significa allergia

La sensibilizzazione, cioè la presenza di IgE specifiche nei confronti di allergeni inalatori e soprattutto alimentari, che si manifesta con la positività dei test cutanei e dei RAST, non necessariamente si accompagna a manifestazioni cliniche di malattia allergica, per quanto rappresenti uno gradino indispensabile verso la comparsa della malattia stessa. Ancora più lontana nella scala che porta alla malattia allergica è la condizione di atopia, cioè la tendenza, ereditaria, genetica, alla produzione delle IgE, invece degli altri tipi di anticorpi, nei confronti di sostanze alimentari od inalanti presenti nell’ambiente (antigeni ambientali).
Sull’altro versante, come spesso si verifica nelle allergie agli alimenti, l’acquisizione dello stato di tolleranza, vale a dire la scomparsa di reazioni all’assunzione dell’alimento in precedenza nocivo, può precedere la scomparsa della sensibilizzazione, cioè della positività ai test, che potrebbe non avvenire mai. Per tale ragione il test di prova della tolleranza agli alimenti, dopo un periodo della dieta di esclusione, va eseguito, a prescindere dalla persistenza o meno della positività dei test, non appena la valutazione della storia clinica del bambino, l’età, trasgressioni dietetiche casuali senza reazioni permetteranno di ipotizzare che il bambino sia diventato tollerante. Il bambino cioè prima perde l’allergia e poi perde la sensibilizzazione.
Quindi la positività del test non necessariamente significa allergia. Ovviamente è però difficile che un test fortemente positivo per un certo allergene inalatorio o alimentare sia presente in un bambino che non abbia alcuna reazione all’esposizione ad essi; maggiormente positivo è il test più facilmente esso si accompagna ad una vera allergia e non ad una semplice sensibilizzazione.
La non assoluta corrispondenza fra positività del test e presenza di una autentica condizione di allergia è particolarmente vera per gli alimenti e per alcuni di essi in particolare. Per tale motivo, tranne in casi particolari, la positività delle prove cutanee o dell’esame sul siero, magari eseguiti per motivazioni del tutto arbitrarie, non può e non deve determinare, sic et simpliciter, la sospensione anche per lunghi periodi dell’alimento. La positività del test deve cioè essere confermata sul piano pratico: la sospensione dell’alimento nei confronti del quale il bambino risulti positivo al test deve accompagnarsi ad un netto miglioramento dei disturbi per i quali si è sospettata l’origine allergica e, in seguito, la reintroduzione di esso deve determinare la ricomparsa di disturbi significativi, anche se non necessariamente identici ai precedenti (“test di eliminazione” e “test di provocazione”).
In questo modo si potrà apprezzare che per ambedue le metodiche (Prick e RAST) in relazione agli alimenti
– la probabilità che alla positività del test correli una autentica presenza di malattia allergica, cioè il valore predittivo positivo (VPP), è molto bassa,
– mentre, al contrario, è elevata la probabilità che alla negatività del test correli una autentica assenza di malattia allergica di tipo IgE mediato, cioè il valore predittivo negativo (VPN).

VPN e VPP dei test cutanei e delle IgE specifiche seriche per latte, uovo, pesce, soia, arachidi, cerali
VPN VPP
Prick circa 100% <20%
IgE specifiche >97% <30%

In altre parole, per questi allergeni, che sono i principali allergeni alimentari dell’età pediatrica, un test negativo esclude virtualmente la diagnosi di allergia alimentare IgE mediata e permette di somministrare con tranquillità l’alimento senza timore di reazioni importanti. Il test negativo però non permette di escludere, come si vedrà in seguito, la presenza di una allergia non IgE mediata; in ogni caso si tratterebbe, però, di reazioni non subitanee e violente ma lente e ritardate come tipico delle allergie cellulo-mediate.
Diverso è il discorso per l’eventuale positività che, come si può desumere dai dati, solo in una minore percentuale dei casi esprime una vera malattia allergica mentre nella maggior parte di essi esprime soltanto una sensibilizzazione senza sintomi corrispondenti.

Il test negativo non sempre esclude l’allergia

In base alla più recente classificazione, le allergie possano essere distinte in IgE mediate e non IgE mediate. Già precedentemente, nel corso di queste note riguardanti l’interpretazione dei test allergologici abbiamo accennato a questa distinzione cercando di dare qualche breve informazione sulle due forme. Le IgE mediate sono le cosiddette reazioni di 1° tipo (“classificazione di Gell e Coombs”), quelle caratterizzate dalla subitaneità e immediatezza dei sintomi alla esposizione alle sostanze allergizzanti; sono in pratica le reazione allergiche anche potenzialmente pericolose. Sia i prick test che i RAST hanno come target le IgE specifiche, cioè la loro valutazione qualitativa a livello della cute, in particolare a livello di cellule chiamate mastociti, nel caso dei prick, e la loro valutazione quantitativa nel siero del sangue nel caso dei RAST. Ambedue questi test, ovviamente, non sono in grado di esplorare le allergie non IgE mediate. Pertanto la negatività di questi test se da un verso permette di escludere una condizione di allergia IgE mediata, dall’altro non può permettere di escludere che una patologia sia mediata da diverso meccanismo.
Pertanto, ad esempio, in un lattante con diarrea persistente o con un accrescimento stentato per il quale si ipotizzi una allergia alle proteine del latte vaccino (APLV) la negatività del test sierologico e del test cutaneo non consente di escludere la latte vaccino-dipendenza delle due malattie essendo il meccanismo immunologico responsabile di questa patologia più frequentemente non IgE mediato.
Il vero test sarà quindi, come sempre, il test pratico, cioè la eliminazione a fini diagnostici del latte vaccino, seguita, eventualmente, ma non necessariamente, dalla osservazione della eventuale ricomparsa della diarrea e/o della crescita rallentata alla risomministrazione, dopo un breve periodo, dell’alimento.
Il patch test, come si può valutare dalla tabella, esplora viceversa solo le allergie cellulo-mediate ed è quindi il test di elezione nella dermatite allergica da contatto (DAC). Recentemente si sta valorizzando il suo uso anche nella dermatite atopica e in varie patologie gastrointestinali nelle quali il meccanismo cellulo-mediato gioca un ruolo importante.

Test di provocazione

Abbiamo visto che test negativo non sempre significa assenza di allergia e che un test positivo non sempre ne esprime, con certezza, la presenza. Ovviamente, però, se il quadro globale, cioè la storia del bambino e della sua malattia nonché i dati emergenti dalla visita medica, è perfettamente compatibile con le risultanze dei test non è necessario alcun ulteriore accertamento diagnostico per negare o affermare la presenza di una malattia allergica. Questi casi rappresentano la maggior parte delle situazioni nella pratica reale.Viceversa ci possono essere casi dubbi, discordanze fra storia clinica (anamnesi) e test; altre volte pur non essendo presente tale discordanza il bambino presenta positività non a uno ma a molti allergeni e può essere pertanto necessario stabilire fra le sostanze risultate positive quale possa essere in realtà la più importante per quei certi sintomi in quel certo bambino. Per tali ragioni si può procedere alla esecuzione dei cosiddetti test di provocazione che consistono nell’esposizione diretta del bambino allergico o ritenuto tale all’allergene o a stimoli di varia natura. Si tratta di accertamenti di terzo livello che competono a centri allergologici. In questa sede basta ricordare che la provocazione per gli allergeni inalatori si esegue usualmente instillando a livello del naso o delle congiuntive quantità progressivamente crescenti della sostanza da testare e si valutano sia con un punteggio basato sui sintomi indotti che con sistemi strumentali, nel caso del naso, gli effetti di queste somministrazioni.
Per gli alimenti, come detto in precedenza, il test di provocazione (challenge) rappresenta a volte quasi un obbligo poiché, generalmente, è abbastanza modesta la probabilità che un test positivo si accompagni ad autentici disturbi all’assunzione dell’alimento. Ovviamente non in tutti i casi è così, e sta al pediatra allergologo il compito di valutare la situazione caso per caso. Tuttavia per le positività meno forti, per positività difficilmente correlabili ai sintomi del bambino, per alcuni alimenti in particolare per i quali la probabilità statistica che al test positivo sia correlata una vera allergia è bassa, si deve procedere alla prova pratica.
Analogamente per malattie per le quali il meccanismo responsabile è più spesso non coinvolgente le IgE specifiche non ci si può ovviamente limitare alla negatività del test, cutaneo o sierologico che sia, per assolvere l’alimento. Anche in questo caso la importanza dell’alimento sospettato va testata praticamente con la sua sospensione per un certo periodo di tempo e la sua successiva reintroduzione dopo il miglioramento della diarrea o della stipsi o del deficit di crescita o dei sintomi della esofagite da reflusso gastroesofageo o della dermatite atopica ecc. ecc.

Errori comuni

1. Non fare il Prick o i RAST nei bambini <3 anni. Si sente ancora dire, da qualche medico, che i test allergici non si possono eseguire nei bambini piccoli perché, a quella età, “l’allergia non si vede”. Niente di più falso: i test si possono eseguire anche in un neonato. Ovviamente la loro valutazione, ma questo vale per qualsiasi età, deve essere fatta da medici esperti nel campo;2. Dare più importanza al RAST rispetto ai test cutanei. Il test allergologico da preferire è sempre, tranne nei casi in cui non può essere eseguito per motivi tecnici, il Prick. Con esso si possono testare più allergeni contemporaneamente, la risposta è immediata, è molto più economico. Inoltre è più specifico, cioè più raramente si avranno le false positività che viceversa sono più frequenti con i RAST;
3. Richiedere la determinazione delle IgE totali (il cosiddetto PRIST). Le IgE totali esprimono solo l’atopia, cioè la tendenza costituzionale alle allergie, non la sensibilizzazione a specifiche sostanze né, meno che meno, l’allergia reale. Il PRIST non esprime nulla di più di quanto esprima la storia familiare e personale del bambino e non ha nessuna utilità dal punto di vista operativo;
4. Sopravvalutare l’importanza delle basse positività dei prick e dei RAST per alimenti. Nella maggior parte dei casi le basse positività per gli alimenti non si accompagnano ad allergia reale e questi bambini non hanno alcun disturbo all’assunzione concreta dell’alimento incriminato;
5. Escludere l’allergia, specialmente nelle forme gastrointestinali, perché il Prick e il RAST sono negativi. Le allergie cosiddette non IgE mediate, cellulo-mediate, non possono, per definizione, accompagnarsi a Prick e RAST positivi. Nella maggior parte delle forme gastrointestinali che sono, per l’appunto cellulo-mediate, indipendentemente dai test e dai loro risultati, si deve, quindi, procedere al test di eliminazione dell’alimento incriminato.

I test alternativi

L’intolleranza alimentare è ormai quasi una moda, ma certamente non è soltanto questo. Essa è infatti anche un fatto reale, concreto. C’è chi pensa che in fondo non esista persona che non abbia una qualche intolleranza a qualche alimento e forse non ha torto. Circa il 20% delle persone ritiene di avere una qualche intolleranza alimentare e con sintomi molto vari. Per queste persone i test allergici “ufficiali” sono scarsamente utili o non lo sono affatto perché non si tratta di allergie dimostrabili con Prick e RAST, cioè di allergie cosiddette IgE mediate. Test scientificamente consolidati esistono poi solo per l’intolleranza al lattosio (zucchero del latte) e per l’intolleranza al glutine (celiachia). In tutti gli altri casi l’unico modo per appurare un’intolleranza sarebbe il solito: individuazione dell’alimento sospetto, sua eliminazione per qualche tempo, sua reintroduzione dopo un periodo di miglioramento. Ma il sospetto è spesso molto vago, il rapporto temporale fra l’assunzione degli alimenti e i sintomi molto labile.
Fra la sensazione di essere intolleranti agli alimenti, che hanno molte persone, e la povertà dell’aiuto che può venir dato dalla medicina ufficiale, esiste un grande spazio vuoto nel quale si è venuta ad inserire tutta una serie di cosiddetti test alternativi, spesso molto pubblicizzati, spesso molto costosi, ma sicuramente tutti del tutto privi di supporti che ne dimostrino una qualsiasi validità scientifica.
Sono molti:

A. Prova citotossica leucocitaria o test di citotossicità o cytotoxic test. Si tratta di un test nato nel lontanissimo 1956, prima ancora della scoperta delle IgE. Si basa sul concetto che l’aggiunta al sangue del paziente dell’allergene alimentare determini, in caso di intolleranza/allergia, la rottura dei globuli bianchi. In realtà le modificazioni che possono essere visualizzate, potrebbero essere dovute a molteplici altri fattori (es. variazioni del PH etc.) che possono alterare i globuli bianchi.
E’ un test molto in uso e per il quale molti pazienti sono etichettati come allergici, spesso a molti alimenti. Tali supposte positività non corrispondono, dal punto di vista clinico, ad una reale allergia alimentare.
E’ un test privo di affidabilità: tutti gli studi che sono stati fatti dimostrano che il test non è “riproducibile” cioè al medesimo campione di sangue possono corrispondere risultati del tutto diversi a seconda dei laboratori.

B. Vega test. Si basa su variazioni elettriche, misurate con un amperometro, determinate dal tenere in mano una fiala contenente l’allergene alimentare sospetto. Anche per questo test, molti studi, anche molto recenti, ne hanno escluso ogni affidabilità.

C. DRIA test. Si basa sulla valutazione delle modificazioni della forza muscolare (misurata in vario modo) di un arto dopo che è stato esposto all’alimento. In realtà l’allergia alimentare non determina modificazioni della forza muscolare e della attività della muscolatura volontaria per cui, anche questo test, non ha validità. Vari studi concludono che il test non ha validità scientifica e che i risultati sono del tutto casuali.

D. Kinesologia applicata. In questo caso, addirittura, la riduzione della forza muscolare che sarebbe determinata dal tenere in mano la provetta, viene valutata direttamente, quasi fosse un “braccio di ferro”, dall’esaminatore. In caso di bambini piccoli il test viene eseguito con un genitore che tiene in braccio il bambino. La riduzione della forza muscolare del genitore, che tiene in mano la provetta con l’alimento sospetto, misurata nello stesso modo dall’esaminatore, sarebbe indicativa di intolleranza nel bambino. Ogni commento è superfluo!.

E. Analisi dei capelli. Valuta il contenuto in metalli pesanti dei capelli per orientare il regime dietetico. Si basa sul presupposto che in alcuni tipi di intolleranza alimentare sia presente una carenza di oligoelementi. Questo tipo di test impone delle diete assolutamente squilibrate.
Anche questo test non ha superato lo scoglio delle prove scientifiche.

Tutti questi test dunque non hanno alcuna affidabilità scientifica. I risultati apparentemente positivi che alcune persone sembrano ottenere non debbono sorprendere. Tutte le pratiche mediche “alternative”, anche del tutto campate in aria, hanno supporters e convinti sostenitori. Nel caso specifico le diete sempre ampiamente ridotte, con esclusione di tanti alimenti fra i quali, casualmente ma non difficilmente potrebbe essere presente l’alimento realmente responsabile, la suggestione, l’effetto benefico di poter pensare di aver finalmente individuato la causa dei propri disturbi, giocano probabilmente un ruolo importante.