Che cos’è l’allergia al latte vaccino

L’allergia al latte vaccino, di mucca, è una realtà, ma anche una moda. Mentre molti anni fa le diagnosi di allergia al latte vaccino che il pediatra con interessi allergologici si trovava a fare erano soprattutto in positivo, nel senso che a lui toccava porre tale diagnosi di fronte a quadri clinici usualmente protratti nel tempo, non adeguatamente inquadrati, al giorno d’oggi, viceversa, occorre che più frequentemente a lui tocchi smentire l’origine allergica di disturbi come tali interpretati e trattati con dieta inutili e spesso disagevoli. Al giorno d’oggi la diagnosi di allergia al latte è posta certamente con eccessiva facilità e non sempre appare sorretta da fatti oggettivi. Una premessa fondamentale è quella di chiarire, per i profani, che per latte vaccino si intende il latte di mucca e tutti i prodotti lattei da esso derivati: quindi sono latte vaccino i latti artificiali usati normalmente nella alimentazione del lattante, i latti pastorizzati di centrale, i latti sterilizzati o a lunga conservazione, i latti condensati; contengono proteine del latte di mucca anche i latti privi di lattosio, talora incongruamente dati a bambini intolleranti o allergici, i latti antireflusso, i latticelli acidi etc. Proteine del latte vaccino sono inoltre contenute in molti prodotti alimentari di uso comune, formaggi, yogurt, biscotti ma anche insaccati, prosciutto, cioccolato ecc.

La allergia al latte di mucca è una allergia alle proteine in esso contenute che sono, principalmente, la caseina, l’alfa-lattoalbumina e la beta-lattoglobulina. Tutt’altra cosa rispetto all’allergia alle proteine del latte è l’intolleranza al lattosio, che è lo zucchero del latte, è che è dovuta alla mancanza sulla superficie dell’intestino degli enzimi necessari per la sua digestione.

La allergia al latte vaccino, di mucca, è la più frequente allergia alimentare dell’età pediatrica, ma per quanto frequente essa sia non interessa più del 2-5% dei bambini (cioè da uno su cinquanta a uno su venti). Ed è, è importante sottolinearlo, una malattia soprattutto del bambino piccolo, sotto i due anni di vita ma principalmente del primo anno di vita. Nella metà dei casi, infatti l’allergia al latte vaccino scompare entro un anno di vita, nell’80% dei casi entro i tre anni.

Le malattie che tale allergia può determinare o a cui può essere associata sono molte: l’orticaria, l’anafilassi chiamata nel linguaggio comune shock anafilattico, la tosse persistente, l’asma, il raffreddore persistente ma anche il vomito o la malattia da reflusso gastroesofageo, la diarrea cronica, il deficit isolato di accrescimento, (“malassorbimento”), le coliche del lattante, la stipsi, la colite allergica, ed altri meno comuni quadri morbosi. La dermatite atopica è la malattia nella quale più spesso le prove cutanee o le analisi per l’allergia al latte sono positive ma si tratta spesso solo di “sensibilizzazione” (vedi” Attenzione: esami positivi non sempre significano allergia”) che non richiede nessuna sospensione del latte. D’altra parte sospendendo il latte e i derivati dalla alimentazione del lattante con dermatite atopica la dermatite stessa non ne appare influenzata. La sospensione dell’alimento deve essere fatta solo se con la sua assunzione il lattante presenta fenomeni acuti immediati importanti (anafilassi, asma acuto, orticaria acuta e così via). 

Quando pensare all’allergia e quando escluderla

In alcuni casi il rapporto fra l’assunzione del latte e la comparsa dei sintomi è di tutta evidenza. Ad esempio un caso tipico di chiara reazione allergica al latte è quello dell’orticaria all’assunzione da parte del piccolo lattante, fino ad allora alimentato elusivamente al seno, del primo biberon di latte artificiale o della prima farina lattea. In questo caso il rapporto temporale è evidente e l’immediata reazione dopo l’assunzione dell’alimento è inequivocabile. Ma non sempre è così: altre volte il rapporto è meno netto e non altrettanto facilmente identificabile.

Un criterio essenziale per ipotizzare l’origine allergica di certi sintomi è l’età del bambino. Abbiamo già detto che l’allergia al latte deve essere considerata una malattia del bambino piccolo, soprattutto del primo anno di vita. Così se da una parte l’orticaria acuta del piccolo bambino, nel primo anno di vita, è soprattutto da allergia alimentare ed in particolare da allergia al latte, l’orticaria negli anni successivi non è quasi mai da allergia agli alimenti ed al latte in particolare.
Anche per il sintomo diarrea cronica un fattore importante è l’età. Anche per essa, infatti, è giusto sospettare l’allergia al latte se il bambino è piccolo, soprattutto se non ha superato il primo anno di vita. Più difficile che la diarrea cronica sia dovuta al latte se insorge in epoca successiva tanto che si può affermare che, tranne rare eccezioni, la diarrea cronica da intolleranza al latte praticamente non esiste dopo i primi 24 mesi di vita.

Medesimo concetto può essere espresso per l’accrescimento stentato che alcuni bambini presentano: nel deficit di crescita il malassorbimento da intolleranza al latte può essere importante nel bambino piccolo, non è mai importante nel bambino grandicello, oltre i due anni, tranne eccezioni molto particolari.
Già da questo prima carrellata si può facilmente desumere come frequentissime siano le situazioni in cui il sospetto di allergia al latte è mal posto e le consequenziali diete ingiustificate. Basti pensare alle diarrea croniche e ai deficit isolati dell’accrescimento del bambino di tre-quattro anni considerati da allergia al latte solo perché un RAST (test allergico sul sangue) è venuto positivo!
Altri criteri che possono indurre il sospetto di allergia al latte sono il rapporto temporale fra la comparsa dei sintomi e l’introduzione dell’alimento nella dieta del bambino (ad esempio diarrea comparsa qualche tempo dopo l’introduzione del latte artificiale) e tutti quegli altri criteri che vengono usualmente utilizzati nella diagnostica allergologica, cioè la storia familiare e personale del bambino, la coesistenza di altri sintomi ecc.

E’ importante, perché rappresenta un fattore di rischio di malattia allergica, sapere se nell’ambito familiare sono presenti casi di allergia, alimentare o respiratoria. Ma anche in questo caso sono necessarie precisazioni. Per familiarità per allergie non si deve intendere la presenza di cugini, zii, nonni, con vaghe diagnosi di allergia più o meno accertate. La familiarità deve essere molto stretta, limitata ai genitori ed ai fratelli del bambino. Infatti, essendo ormai la frequenza delle malattie allergiche molto elevata (secondo qualche statistica fino al 40% della popolazione in generale ha qualche allergia) è praticamente certo trovare nell’ambito familiare allargato del bambino altri casi di allergia e quindi questo criterio perderebbe valore. Non solo: l’allergia del familiare stretto deve essere documentata e accertata con test significativi. Non hanno alcuna importanza, a tal fine, diagnosi supportate da test scientificamente privi di ogni validità come il test citotossico, la kinesologia applicata, il test della potenza muscolare ecc.
Nella storia personale del bambino possono essere importanti precedenti di coliche intense o di sintomi non banali di reflusso gastroesofageo, così come importante per inquadrare un certo sintomo come da allergia alimentare può essere la coesistenza di sintomi a carico di apparati diversi. In un bambino con dermatite atopica, molto piccolo, un’asma potrebbe essere da allergia al latte; una diarrea cronica può essere più facilmente da allergia se oltre all’età del bambino si valuti la compresenza di una dermatite pruriginosa, di particolari caratteristiche della pelle e così via.

Oltre a questi criteri va considerata la compatibilità con l’allergia dei sintomi presentati: non tutto quello che appare “strano” e non facilmente inquadrabile è dovuto ad allergia alimentare ed in particolare al latte. Ad esempio non tutte le eruzioni cutanee del bambino piccolo sono dovute ad “allergia” per quanto ci sia una radicata tendenza, di fronte ad un bambino con “macchie” o “bolle”, a chiedersi prima di tutto che cosa il bambino abbia mangiato o che cosa abbia mangiato la madre che allatta. E’ un atteggiamento mentale sbagliato comune a moltissimi genitori ma anche a molti medici. La unica malattia della cute che può, ma non sempre è così!, avere una origine allergica è l’orticaria. Per tutte le altre eruzioni cutanee meno si pensa all’allergia meno si commettono errori. L’orticaria è una malattia caratterizzata da gettate successive di elementi rilevati e intensamente pruriginosi: sono elementi che rapidamente scompaiono per poi riapparire in sedi diverse. La stessa dermatite atopica, caratterizzata da lesioni pruriginose che tendono persistere nel tempo, e che quasi unanimemente nel passato veniva considerata dovuta ad allergia alimentare, non dipende in realtà dagli alimenti; infatti sospendere latte o l’uovo non comporta usualmente alcun miglioramento della malattia cutanea.

E’ vero però che talora la dermatite facilita l’allergia vera agli alimenti la quale si può manifestare con sintomi intensi e di rapida insorgenza. Questa è la sola condizione per la quale nel lattante con dermatite atopica si deve sospendere l’alimento (in genere il latte o l’uovo), quando la loro assunzione si accompagna ad immediati ed intensi sintomi (orticaria, anafilassi, asma).

In breve: le dermatiti atopiche non sono dovute ad allergia agli alimenti ma le allergie agli alimenti si possono sovrapporre; tuttavia la dieta senza latte e derivati e con latti speciali (di soia o altro) sono spesso il primo intervento terapeutico del pediatra. Inoltre piccoli neonati e lattanti dei primi due mesi di vita frequentissimamente sono considerati allergici e come tale trattati ed etichettati per il futuro per lesioni banali come l’acne dei neonati, eruzione simile all’acne giovanile che compare al declinare del primo mese di vita per scomparire spontaneamente dopo una quindicina di giorni, o per la dermatite seborroica, la cosiddetta crosta lattea, che non è pruriginosa, compare precocemente e tende a scomparire spontaneamente in qualche mese.

Oltre ai criteri positivi che permettono di sospettare la presenza di una allergia ci sono criteri che ne permettono drasticamente la esclusione. In parte se n’è già parlato (l’età, il tipo di sintomi, ecc.) in precedenza tuttavia voglio porre l’accento su due situazioni in cui immediatamente si può escludere che il bambino sia allergico al latte per quanto egli sia stato come tale diagnosticato e sia trattato con latti speciali.

La prima è quella frequentissima dell’uso di latti impropri. Accade spesso di osservare nella pratica di tutti i giorni bambini diagnosticati come allergici spesso soltanto per dei test sul sangue risultati positivi. I test, come diremo in seguito, non sono assolutamente un valore assoluto e debbono essere criticamente valutati e non si deve, in base a modeste positività, in assenza di un quadro clinico compatibile, diagnosticare per essi una allergia. Orbene spesso tali bambini, impropriamente etichettati in questo modo, vengono altrettanto impropriamente trattati con latti erroneamente ritenuti latti dietetici per bambini allergici. Il caso più eclatante è quello del latte di capra. Ma analogo discorso può essere fatto per i latti a ridotto contenuto di lattosio (Zymil, Accadì, HN25 ecc.). Il latte di capra è strutturalmente molto simile al latte di mucca per cui il bambino che fosse realmente allergico, e non erroneamente ritenuto tale, al latte di mucca avrebbe dei sintomi importanti alla sua assunzione e continuerebbe a presentare quei disturbi per i quali il bambino ha cambiato alimentazione. Il latte di capra, in altre parole, non è l’alimento da prescrivere al bambino con vera allergia al latte e se un bambino supposto allergico al latte di mucca non ha disturbi con il latte di capra vuol dire semplicemente che allergico non è, per quanto più o meno positivo possa essere il test sul sangue.

Ancora più assurdo appare l’utilizzo in caso di sospetta allergia dei latti a ridotto o assente contenuto di lattosio. In questi latti, come detto, i fattori che determinano l’allergia al latte, cioè le proteine sono presenti in maniera integrale; quello che è assente o presente in misura ridotta è il lattosio, cioè lo zucchero del latte, che è responsabile di tutto un altro tipo di manifestazioni. Per fortuna i medici che prescrivono questi latti nei bambini “allergici” sono gli stessi che usualmente “regalano” le diagnosi di allergia a chi allergico non è e, quindi, l’assunzione di questi alimenti, nella maggior parte dei casi, non comporta i danni che comporterebbe se si trattasse di soggetti con vera allergia.

Un criterio fondamentale, infine, per escludere la diagnosi di allergia al latte, anche quando essa sia stata legittimamente posta per criteri clinici e per un’adeguata valutazione dei test sia sulla cute che sul sangue, è la mancata risposta positiva alla sua esclusione. Se un bambino è stato, anche giustamente, sospettato per un certo disturbo di essere allergico e per tale motivo è stato messo a dieta con alimenti alternativi al latte congrui ed adeguati ma non si apprezzano miglioramenti degli stessi sintomi si deve dedurre che per quel bambino, per il quale il sospetto era giustificato, in realtà l’allergia al latte non è importante, per quanto positivi possano essere i test. In altre parole non si deve protrarre la dieta se essa evidentemente non determina i miglioramenti sperati anche se le analisi e le prove cutanee fossero positive. In questi casi i test sono l’espressione non di una vera allergia ma soltanto di una “sensibilizzazione, senza manifestazioni negative correlate, al latte.

Che significato hanno i test allergici

I test allergologici, sia cutanei (prick test) che sul sangue (PRIST, RAST, IMMUNOCAP) non sono, come detto, un valore assoluto e vanno valutati con spirito critico da medici competenti nella materia.

I test sul sangue sono indubbiamente utili, in particolare per quei bambini nei quali per l’uso di antistaminici, per la presenza di malattie cutanee estese, per il rischio di eventi pericolosi, non si possono usare i test cutanei, che in verità sarebbero sempre da preferire. Tuttavia i test sul sangue hanno determinato un marcatissimo incremento delle errate diagnosi di allergia, specialmente agli alimenti e contribuito in maniera rilevante all’esplosione dei bambini ritenuti “allergici”. La possibilità di fare accertamenti allergologici con un semplice prelievo del sangue permette a molti medici che non hanno specifiche competenze di by-passare completamente il medico esperto della materia il che comporta, purtroppo molto spesso, gravi errori di diagnosi e di trattamento. La valutazione dei test allergologici, specialmente quando si tratta di alimenti, richiede competenze molto specifiche, esperienza, buonsenso.

Perché i test allergologici non sono un valore assoluto? perché debbono essere considerati soltanto un supporto alla diagnosi e non l’elemento fondamentale su cui basare la diagnosi stessa ed il conseguente trattamento?

La risposta semplice ad un problema complesso è questa:

  1. perché test positivo non significa allergia;
  2. perché non tutte le allergie sono uguali.

Un test positivo non significa allergia

Un test allergico positivo non permette sempre di affermare, sic et simpliciter, che quel certo bambino ha quel certo sintomo perché allergico. Ciò vale in particolare per gli alimenti ed in particolare per i test sul sangue. Anche per quelli cutanei la positività non significa necessariamente allergia per quanto meno spesso essi diano “falsi positivi” cioè positività in soggetti non allergici.

La positività dei test esprime semplicemente la condizione di “sensibilizzazione”, cioè il bambino in seguito a precedenti contatti con l’alimento ha prodotto un particolare tipo di anticorpi, chiamati IgE, che sono l’elemento fondamentale perché si realizzi, in ulteriori contatti, la reazione allergica vera e propria. Ma la presenza di queste IgE, requisito indispensabile perché la reazione allergica avvenga, non significa affatto che poi questa si realizzi. La sensibilizzazione, cioè la presenza di anticorpi specifici di tipo IgE diretti contro le proteine del latte, pur rappresentando un requisito essenziale per un certo tipo di reazione allergica non necessariamente è correlata con essa.

Orbene i test sono in effetti la misura della sensibilizzazione e non dell’allergia (vedi “Attenzione: esami positivi non sempre significano allergia”).

Con il test sul sangue si misurano le IgE specifiche contro il latte presenti appunto sul sangue, con il test cutaneo le IgE specifiche presenti nella cute, disposte su particolari cellule che si chiamano mastociti.
Sensibilizzazione dunque non vuol dire allergia e questo è vero in particolare per le basse positività, lo 0,35-3,5 dei RAST (la I° e la II° classe di positività) e il + o il ++ dei prick. La probabilità statistica che ad un test positivo per il latte corrispondano dei sintomi reali conseguenti alla sua assunzione (il cosiddetto valore predittivo positivo) è mediamente inferiore al 50%.

Attenzione dunque: in meno della metà dei bambini che hanno un test per il latte positivo il latte fa veramente male!

Gli altri, pur avendo analisi del sangue o test sulla cute positivi non hanno disturbi alla sua assunzione e lo tollerano senza problemi.

C’è chi ha cercato di studiare statisticamente quali sono i livelli ai quali diventa molto elevata la concreta possibilità che il test positivo esprima una vera allergia: orbene tali livelli sono molto elevati sia per il RAST che per il prick test. Per i RAST quando il valore è di circa 15 kU/l o superiore si può pensare che il latte sia veramente offendente e che la sua assunzione quasi certamente possa causare sintomi; per i Prick si considera predittivo di reazione pressoché certa all’assunzione un diametro del pomfo (gonfiore indotto sulla pelle dall’introduzione del latte stesso, come “estratto” commerciale o come latte fresco, mediante puntuta con appositi aghetti) superiore o uguale a 8 mm. Solo per questi elevati livelli di positività i test sono certamente significativi ed esprimono, quasi con certezza assoluta, una condizione di vera allergia.

Al di sotto di questi livelli, tranne casi particolari (bambino che ha avuto una reazione anafilattica dopo l’assunzione del latte o bambino che ha presentato un’orticaria al primo biberon di latte artificiale) la positività del test andrebbe sempre confermata sul terreno pratico. In altre parole il sospetto diagnostico che emerge dalla storia clinica del bambino e dai suoi sintomi e che appare rafforzato dalla positività dei test deve essere confermato dalla scomparsa dei sintomi stessi nel momento in cui il latte viene sospeso dalla alimentazione del bambino (test di eliminazione) e ricomparire alla controprova, cioè dopo quando dopo un periodo di 1 o 2 mesi di benessere, il latte, in ambiente medico e non a domicilio e sotto controllo di personale esperto viene risomministrato (test di provocazione o challenge).

Il vero test quindi per la diagnosi di allergia al latte, e di ogni altro alimento, è dunque quello empirico, pratico; i test sul sangue di cui tanto si abusa, spesso in maniera del tutto illogica e con richieste di testare alimenti assolutamente irrilevanti in funzione della storia clinica del bambino, non sono la verità assoluta, anzi, tutt’altro.

E’ storia di tutti i giorni, viceversa, vedere bambini mantenuti a dieta, anche per tempi lunghissimi, perché hanno un RAST positivo malgrado l’astensione dal latte non determini alcun significativo miglioramento dei suoi disturbi. In questi casi spesso è una specie di terrorismo psicologico quello che impone questa restrizione: “il bambino ha l’analisi positiva, quindi è allergico al latte e anche se non prendendolo non migliora chissà cosa potrebbe succedergli in futuro se lo prendesse, anche lo shock anafilattico!” Niente di più falso; il bambino con test positivo, cioè sensibilizzato, che assume normalmente il latte senza problemi o che non ha miglioramenti quando il latte vaccino viene tolto non corre nessun rischio se continua a prenderlo, nel primo caso, o se ricomincia a prenderlo, nel secondo: l’assunzione del latte in questi bambini, sensibilizzati ma del tutto tolleranti, non comporta rischi ma al contrario permette la progressiva desensibilizzazione.

Non tutte le allergie sono uguali

L’allergia al latte, ma il discorso vale per tutte le allergie alimentari, può essere dovuta a meccanismi biologici vari e diversi. I principali meccanismi che sono alla base della allergia al latte di mucca sono:

  • un meccanismo che coinvolge nell’origine della reazione avversa all’assunzione del latte un particolare tipo di anticorpo, chiamato IgE (allergie IgE mediate o di tipo I°);
  • un meccanismo che coinvolge particolari cellule del sangue chiamate linfociti T (allergie cellulo-mediate o di IV° tipo). Sono quelle comunemente definite intolleranze.

Sono legate al primo tipo di meccanismo (IgE mediate) alcune forme di allergia come l’orticaria e l’anafilassi. Le allergie IgE mediate al latte sono quelle con reazioni immediate all’assunzione del latte (la reazione compare entro un’ora dall’assunzione dell’alimento, in genere entro 15-20 minuti), a volte potenzialmente pericolose per la stessa vita.

Sono, viceversa cellulo-mediate (intolleranze) le reazioni lente ritardate, le malattie croniche, soprattutto alcune malattie a carico dell’apparato digerente come lo scarso accrescimento e la diarrea cronica.

In alcune malattie, infine, come nella dermatite atopica, possono essere coinvolti entrambi i meccanismi, con una importanza diversa a seconda dei casi.

Orbene i test usualmente eseguiti, sia con il prelievo del sangue che sulla cute, sono esclusivi delle sole allergie di I° tipo perché si basano sulla ricerca delle sole IgE.

Non ci si può aspettare pertanto che i test siano positivi nella gran parte delle malattie “allergiche” gastrointestinali, dalla diarrea cronica al dolore addominale ricorrente, allo scarso accrescimento, trattandosi soprattutto di intolleranze, cellulo-mediate. Per definizione, quindi, in un bambino con diarrea cronica o con scarso accrescimento i test saranno nella maggior parte dei casi negativi e pertanto è inutile eseguirli. Anzi la loro esecuzione può essere fuorviante perché nella valutazione della persona non esperta la negatività potrebbe indurre ad escludere la responsabilità del latte anche quand’esso sia veramente responsabile. In questi casi il test negativo non esclude l’allergia o l’intolleranza che dir si voglia.

Per tali motivi ancor di più il vero test che permette di fare la diagnosi è la prova pratica, la prova di eliminazione per 1-2 mesi del latte e la sua nuova somministrazione dopo che con l’eliminazione si è ottenuto un significativo miglioramento dei sintomi (dieta di esclusione e test di provocazione). D’altra parte essendo l’orticaria una malattia tipicamente ed esclusivamente di tipo I°, cioè dovuta alle IgE, non può esistere un’orticaria da latte vaccino con test negativo: se il test è negativo vuol dire che non c’è allergia al latte ma la causa è un’altra.

Come si cura l’allergia al latte

Oltre al trattamento specifico degli aspetti clinici delle diverse malattie (orticaria, anafilassi, SAO etc.), di cui si parla nei rispettivi paragrafi, ovviamente il trattamento fondamentale è l’evitamento del latte e dei suoi derivati. A parte si possono consultare estesi elenchi degli alimenti proibiti e concessi e schemi di dieta per le varie età dei bambini e per i vari tipi di latti speciali indicati per bambini allergici. I latti fondamentalmente utilizzati per il trattamento dietetico dell’allergia al latte vaccino sono i latti di soia, gli idrolisati spinti, gli idrolisati totali (latti elementari o miscele di aminoacidi), l’idrolisato di riso. Possono anche essere utilizzati alimenti di preparazione casalinga a base di crema di riso, olio, carne di agnello (dieta di Rezza).

Il latte di soia, derivato appunto dalla soia, contiene proteine del tutto diverse rispetto a quelle contenute nel latte vaccino e nei latti da esso derivati. Trova pertanto indicazione nelle allergie IgE mediate, sostanzialmente orticaria e anafilassi. I latti di soia non sono indicati laddove siano presenti problemi gastrointestinali (reflusso gastroesofageo, diarrea cronica, malassorbimento con crescita deficitaria) perché in questi casi è elevato il rischio che il bambino possa diventare allergico, con il tempo, anche al latte di soia e che i sintomi di partenza si possano ripresentare. 
Nelle forme gastrointestinali trovano invece indicazione i cosiddetti idrolisati spinti. In essi le proteine del latte sono scisse, frammentizzate, fino ad ottenere frammenti di dimensioni talmente minute da ridurre del 90-95% la capacità di indurre reazioni nei soggetti allergici alle proteine intere.

Tutti questi latti, in ogni caso, possono conservare, in misura maggiore o minore, una certa capacità in tal senso. Pertanto il loro uso nelle forme immediate, pericolose (IgE mediate), deve essere guardingo e deve essere preceduto dal test cutaneo con il latte stesso e da una prima somministrazione di prova, in caso di test cutaneo positivo, sotto controllo medico. Nessuna utilità hanno invece gli idrolisati parziali, i cosiddetti HA, in cui la frammentizzazione delle proteine è poco spinta e quindi la capacità di indurre reazioni nel soggetto allergico molto elevata. Tali latti non sono assolutamente indicati nel soggetto allergico per la concreta possibilità di dare reazioni anche gravi. Molto sfumata, impalpabile quasi, è inoltre la loro utilità anche nell’uso più comune che di essi si fa, cioè la somministrazione fin dalla nascita ai fini di prevenire l’allergia nel soggetto ad essa predisposto,ad esempio il neonato con almeno due familiari stretti chiaramente allergici. In conclusione i latti cosiddetti HA non hanno alcuna indicazione pratica.

Gli idrolisati totali, o latti elementari, o miscele di aminoacidi, sono gli unici a non avere alcun potere allergico, nel senso che essi sono sempre e in ogni caso tollerati nel bambino allergico. Ciò è dovuto al fatto che in esse le proteine sono completamente ed integralmente frammentizzate e ridotte fino ai loro singoli mattoni costitutivi, cioè gli aminoacidi. In tali latti quindi sono presenti solo aminoacidi, non in grado di dare allergia, e sono del tutto assenti anche quei piccoli frammenti di proteine che invece non rendono sicuri al cento per cento i cosiddetti idrolisati spinti. Il loro grosso limite è rappresentato dal prezzo molto elevato e dal sapore decisamente non gradevole. La loro indicazione è nelle allergie importanti, in bambini che non tollerano nemmeno gli altri latti speciali. Qualcuno li usa anche a fini squisitamente diagnostici: cioè fin dall’inizio nel bambino sospetto allergico perché, senza il fattore confondente rappresentato dalla eventuale allergia alla soia o agli idrolisati spinti, con gli idrolisati totali si può dimostrare se quel certo sintomo è veramente di natura allergica. Il miglioramento o meno del bambino alimentato con questi latti invece che con i latti a base di latte di mucca permette di stabilire in maniera incontrovertibile se la diarrea, il vomito immediato, l’asma, la dermatite atopica, sono o meno dovuti all’allergia al latte. Una volta accertato in questo modo lo stato di allergia si può ricercare, per il proseguimento della dieta, un altro tipo di latte alternativo tollerato, meno costoso e più gustoso.

Sono assolutamente da non usarsi nel bambino con allergia alle proteine del latte, e ciò specialmente se si tratta di allergie di tipo immediato, IgE mediate, il latte di capra, i latti senza lattosio ma con normale contenuto di proteine (HN25, Zymil, Accadì), i latti AR, i latticelli acidi.

Il latte di capra oltre ad avere una composizione chimica strutturalmente molto simile al latte di mucca il che lo rende del tutto non curativo e potenzialmente pericoloso, è povero dal punto di vista nutrizionale e in grado, di per sé, di indurre allergia.

Gli altri latti (Zymil, HN25, Accadì, AR) contengono normalmente le proteine del latte, cioè i fattori responsabili dell’allergia. Usare questi latti significa semplicemente continuare a dare il latte vaccino al bambino.

La dieta di Rezza è un tipo di alimentazione di sicuro valore storico ed è tuttora molto in voga in alcuni ospedali della capitale. E’ un alimento preparato in casa con crema di riso, olio di oliva, carne di agnello, calcio. Ha un buon sapore ed è, in molti casi, sicuramente utile. Tuttavia trattandosi di una miscela di alimenti diversi rappresenta per il bambino allergico e spesso tendente ad ulteriori allergie, un carico eccessivo di proteine diverse nei confronti delle quali il bambino si potrebbe allergizzare.

Il latte costituito da riso idrolizzato (idrolisato di riso = Risolac) è un latte, disponibile al momento solo in Italia, utilizzato da alcuni anni e di accertata efficacia. Ma attenzione: non hanno nulla a che fare con l’idrolisato di riso e con i latti in genere i cosiddetti latti di riso come il Chiccolat o il Vitariz. Non sono latti ma acqua con un pugno di riso. Ho visto personalmente una bambina con grave carenza di proteine e in grave pericolo, anche per la sopravvivenza, per questo tipo di “alimento” impropriamente prescritto da un medico non esperto in base, tra l’altro, ad una diagnosi di allergia al latte anch’essa impropria. Questo per dire che il medico non esperto spesso crea i problemi e non li risolve.

Oltre all’uso di latti speciali, non indispensabili nel bambino più grandicello, oltre l’anno di vita, particolare attenzione i genitori del bambino allergico devono porre nell’uso di alimenti che non contengano proteine del latte. Un elenco di tali alimenti è disponibile nel paragrafo a parte.
La presenza di latte per legge europea deve essere dichiarata sempre sull’etichetta degli alimenti, anche per piccole quantità. Un problema può essere quello della contaminazione con il latte di altri alimenti: l’esempio più semplice è quello dell’uso da parte del gelataio della stessa paletta per preparare i vari gelati. Il gelato del bambino allergico può così contaminarsi per l’uso promiscuo di questo strumento. Infine non va dimenticato che latte può essere contenuto anche nei farmaci e l’esempio più eclatante è quello del Betotal, farmaco ampiamente usato, che contiene latte condensato.
Come già detto, in un paragrafo a parte, sono riportati gli elenchi degli alimenti concessi e non concessi e vari schemi pratici di dieta per le varie età del bambino allergico.

Quale è il destino del bambino allergico al latte

Come detto l’allergia alle proteine del latte di mucca è una malattia del bambino molto piccolo, del 1°-2° anno di vita. Nel 50% dei casi l’allergia scompare entro l’anno, nell’80% dei casi entro i tre anni. In genere il bambino acquisisce la tolleranza prima se i sintomi sono gastrointestinali, più tardi se interessano altri apparati. Mediamente le forme intestinali non IgE mediate, le cosiddette intolleranze, guariscono intorno all’anno e mezzo di vita. La scomparsa dell’allergia, cioè l’acquisizione da parte del bambino della tolleranza al latte è indipendente dalla positività del test; in altre parole il bambino acquisisce la tolleranza al latte nei confronti del quale era allergico mentre ancora i test, sia sul sangue che sulla pelle, permangono positivi.

Non si deve pertanto gestire il bambino con allergia al latte soltanto regolandosi su RAST e Prick; non si deve aspettare che questi test diventino negativi per saggiare se il bambino ha acquisito la tolleranza: tali test, teoricamente, potrebbero restare positivi a vita. Il momento in cui verosimilmente il bambino ha riacquisito la tolleranza si può intuire i funzione di vari fattori il primo dei quali è il tempo. Tranne che nei casi in cui il latte è stato responsabile di fenomeni gravissimi di anafilassi la tolleranza va saggiata ogni 6-12 mesi, in ambiente adeguato e pronti ad intervenire in caso di reazioni. Qualora eventuali casuali trasgressioni alimentari, con fortuita assunzione di latte e derivati, non abbiano dato esito a reazioni importanti il test di tolleranza in ospedale, usualmente in regime di day hospital, può essere anche eseguito immediatamente. Qualche aiuto può venire anche dai test allergologici, che, però, come detto non devono essere considerati un valore assoluto. Possono far ipotizzare un’avvenuta acquisizione da parte del bambino della tolleranza al latte dei test fortemente in decremento nel tempo ed anche in questo caso, sia per quelli sul sangue che per quelli sulla cute, esistono dei parametri statistici che permettono di valutare quanto probabile sia che il bambino abbia ormai tolleranza al latte in funzione del decremento delle IgE specifiche (misurate dai RAST) o del diametro dei pomfi (ottenuti con il Prick) e della rapidità con cui esso è avvenuto.

Il test di tolleranza al latte si esegue come detto in ambiente ospedaliero e disponendo di tutti quei presidi che sono necessari per intervenire in caso di reazione all’alimento. Solo in caso di RAST e Prick del tutto negativi il test può essere eseguito, con sufficiente sicurezza, anche dai genitori, a casa, essendo escluse in questi casi possibilità di reazione immediate, gravi e pericolose.
Il test di tolleranza deve essere gestito da personale esperto nella materia, con cautela, somministrando il latte in quantità crescenti scadenzate nel tempo fino a somministrare l’intera quantità di latte che il bambino potrebbe assumere in un singolo pasto.

Alcune scuole di allergologia pediatrica eseguono usualmente il test di tolleranza, con la somministrazione pratica del latte, anche a quei bambini fortemente allergici per i quali, in funzione degli elementi a cui abbiamo accennato, si prevede quasi con certezza la reazione. Ciò serve sia perché in alcuni casi anche i bambini con test allergologici fortemente positivi dimostrano poi, alla prova pratica, di non avere alcuna reazione negativa alla sua assunzione, sia perché in questo modo è possibile valutare il tipo di reazione e la sua entità in quelli che dimostrano di non tollerarlo. Il tipo di reazione può essere varia e variamente intensa e in funzione di essa ci si potrà regolare per il comportamento da tenere successivamente. In alcuni casi infatti si dovranno informare i genitori circa il comportamento da tenere per evitare il contatto del bambino con l’alimento e come comportarsi di fronte ad evenienze gravi come l’anafilassi; in altri casi, con reazioni meno gravi, si può provare una graduale desensibilizzazione al latte.

Errori comuni

  • Usare i latti HA. I latti HA non andrebbero mai usati nella terapia del bambino già allergico alle PLV per la possibilità concreta di reazioni allergiche. Non esiste più, inoltre, l’indicazione all’uso per la prevenzione delle allergie nei neonati ad alto rischio per familiarità;
  • Usare il latte di capra. Il latte di capra ha notevole cross-reattività con il latte vaccino. Cioè la stragrande maggioranza dei bambini allergici al latte di mucca ha reazioni allergiche anche assumendo latte di capra.. Esso, inoltre è nutrizionalmente poco valido (carenza di ac. folico soprattutto) e ha notevole capacità di indurre allergie verso sé medesimo;
  • Usare latti privi di lattosio, cioè lo zucchero del latte, ma contenenti le proteine (HN25, Humana Disanal, Similac LF, O-Lac, Accadì, Zymil). Da rilevare che la diarrea protratta dopo un’enterite da intolleranza secondaria al lattosio (qualche anno fa si pensava potesse esistere e per essa furono prodotti, a suo tempo, latti in polvere senza lattosio) in realtà è una leggenda. Esistono le forme di intolleranza al lattosio congenite e le forme tardive del bambino più grande. In questo caso il sintomo dominante è il dolore addominale più che la diarrea.
  • Usare il latte di soia nella diarrea LV dipendente; il rischio di sensibilizzazione secondaria alla soia è troppo grande. Sono preferibili gli idrolisati spinti.
  • Considerare diarrea, e mettere a dieta la madre per questo, le evacuazioni talora esplosive, liquide, talora schiumose, talora verdastre, spesso molto frequenti nelle prime settimane di vita, del bambino allattato al seno. Il bambino allattato al seno potenzialmente non soffre di diarrea.
  • Considerare manifestazione di intolleranza al latte le feci verdi. Le feci più o meno intensamente verdi non sono patologiche. Il colore verde è dovuto all’ossidazione della bilirubina (che diventa biliverdina) contenuta nelle feci e al contenuto di ferro del latte di formula.
  • Mettere a dieta il bambino grandicello sensibilizzato ma tollerante può esporre a reazioni molto più gravi ad una successiva esposizione casuale. Il bambino sensibilizzato che prende latte (se tollerante) in sostanza fa una desensibilizzazione continua.

Il bambino che non cresce e il latte

La diagnosi di deficit di crescita da intolleranza-allergia alle proteine del latte è una diagnosi molto frequente ed impegnativa perché condiziona, talora per molto tempo, l’alimentazione dei piccoli bambini.

Va tuttavia rilevato che talora, anche in centri rinomati, tale diagnosi viene posta del tutto impropriamente e non in linea con i protocolli previsti.

Il vero deficit di crescita da allergia-intolleranza al latte

1)    E’ una malattia del bambino molto piccolo, del primo anno di vita; è rara dopo l’anno d’età ed eccezionale dopo i 2 anni.

2)    L’accertamento non è l’esame del sangue (RAST per latte) perché

  • il meccanismo del vero deficit di crescita da latte vaccino (cellulo-mediato) non si valuta con l’esame del sangue; con l’esame del sangue si misurano le IgE specifiche che sono il test nelle malattie allergiche acute (reazioni anafilattiche, orticaria).
  • in realtà gli esami del sangue per l’allergia al latte risultano debolmente positivi in tantissimi bambini (oltre il 50%) anche presi del tutto a caso. La maggior parte di queste positività vanno considerate false positività e non sono collegate ad autentiche reazioni alla assunzione del latte.

3)    Il vero unico modo per accertare se una crescita stentata dipende dal latte non è quindi l’esame del sangue ma la prova di eliminazione, cioè sospendere latte e derivati ed osservare se il deficit di crescita scompare: se un bambino non cresce perché non tollera il latte sospendendolo il bambino deve avere un rapido recupero e successivamente crescere bene. Se il sintomo non scompare vuol dire che la scarsa crescita, se reale,  non dipende dal latte ed è assurdo continuare per mesi e anni la dieta solo perché l’analisi è positiva.

4)    Dopo la prova di eliminazione, se la crescita riprende bene e il bambino recupera il peso, si deve fare nel breve periodo di tempo (2-3 mesi) la controprova (test di provocazione) cioè vedere se riassumendo il latte il bambino presenta di nuovo una crescita stentata. Solo a questo punto, se il deficit di crescita ricompare si può affermare che il bambino è intollerante e il bambino va messo a dieta per sei mesi (non di più!) fino alla prova successiva.

5)    il deficit di crescita da latte vaccino, se è vero, scompare sempre entro sei mesi-un anno. Si deve sempre provare periodicamente a reintrodurre il latte per saggiare se la tolleranza è stata acquisita.

Per inciso:

  • anche nel bambino con vera (in verità rara) stentata crescita da latte vaccino non sono da considerarsi latti alternativi e quindi non si debbono usare, i latti di soia e, soprattutto, il latte di capra;
  • non è l’esame del sangue, che come visto può essere e può restare falsamente positivo per anni, il criterio per decidere se e quando riprovare a reintrodurre il latte. Viceversa si vedono spesso bambini assurdamente tenuti a dieta senza latte e derivati per molti anni solo perché l’esame del sangue (che come detto non ha importanza!) continua a essere (falsamente) positivo.

In conclusione i bambini con problemi gastroenterologici (scarsa crescita, scarso appetito, diarrea, vomito etc.) non vanno messi a dieta solo perché gli esami del sangue sono positivi. Gli esami del sangue risultano positivi in tantissimi bambini del tutto sani e non hanno nessun rapporto con questo tipo di sintomi.

La diarrea persistente e il latte

Le diagnosi ed i casi reali di diarrea persistente da intolleranza-allergia alle proteine del latte erano sicuramente molto più frequenti nel passato e si sono nell’ultimo decennio decisamente ridotti. Si tratta chiaramente di una diagnosi impegnativa perché condiziona, talora per molto tempo, l’alimentazione dei piccoli bambini.

Va tuttavia rilevato che talora, anche in centri di gastroenterologia pediatrica, tale diagnosi viene posta del tutto impropriamente e non in linea con i protocolli previsti.

La vera diarrea persistente da allergia-intolleranza al latte

1)    è una malattia del bambino molto piccolo, del primo anno di vita; è rara dopo l’anno di età ed eccezionale dopo i 2 anni.

2)    Gli accertamenti non sono l’esame del sangue (RAST per latte) né i test cutanei (prick) perché

  • con l’esame del sangue e le prove cutanee si misurano le IgE specifiche che sono coinvolte e sono il test nelle malattie allergiche acute (reazioni anafilattiche, orticaria acuta); la vera diarrea da latte vaccino prevede un meccanismo diverso che non coinvolge le IgE, un meccanismo cellulo-mediato.  E’ privo di senso pertanto misurare le IgE per studiare una situazione in cui le IgE non sono coinvolte;
  • inoltre gli esami del sangue per l’allergia al latte, cioè queste famose IgE,  risultano debolmente positivi in tantissimi bambini (oltre il 50%) anche presi del tutto a caso. La maggior parte di queste positività vanno considerate false positività e non sono collegate ad autentiche reazioni alla assunzione del latte.

Eseguire pertanto dei test che misurano le IgE specifiche (RAST e/o prick) per diagnosticare la cause di una diarrea persistente è errato e può determinare due ordini di errori molto frequenti

  1. un test negativo potrebbe indurre ad escludere erroneamente la responsabilità del latte, perché il latte potrebbe essere responsabile, come è nella vera diarrea da latte vaccino, con un meccanismo, quello cellulo-mediato, che sfugge alla valutazione con test;
  2. un test positivo potrebbe indurre a attribuire erroneamente al latte la responsabilità  della diarrea mentre quella positività deve essere considerata un reperto del tutto casuale e del tutto svincolato dalla malattia che riconosce tutt’altro meccanismo e tutt’altra origine.

3)    Il vero unico modo per accertare se la diarrea dipende dal latte non è quindi l’esame del sangue (o i test cutanei) ma la prova di eliminazione, cioè sospendere latte e derivati ed osservare se la diarrea scompare: se un bambino ha diarrea perché non tollera il latte sospendendolo il bambino deve avere un rapido e netto miglioramento già nelle prime 24 ore, con emissione di feci decisamente formate. Se il sintomo non scompare vuol dire che la diarrea, se reale,  non dipende dal latte ed è assurdo continuare per mesi e anni la dieta solo perché l’analisi è positiva.

4)    Dopo la prova di eliminazione, se la diarrea scompare e il bambino recupera il peso, si deve fare nel breve periodo di tempo (2-3 mesi) la controprova (test di provocazione) cioè vedere se riassumendo il latte il bambino il sintomo si ripresenta. Solo a questo punto, se il test è positivo, si può affermare che il bambino è intollerante e il bambino va messo a dieta per sei mesi (non di più!) fino alla prova successiva.

5)    La diarrea da latte vaccino, se è vera, scompare sempre entro sei mesi-un anno. Si deve sempre provare periodicamente a reintrodurre il latte per saggiare se la tolleranza è stata acquisita.

Per inciso:

  • anche nel bambino con vera (ormai rara) diarrea da latte vaccino non sono da considerarsi latti alternativi e quindi non si debbono usare, i latti di soia e, soprattutto, il latte di capra.
  • non è l’esame del sangue, che come visto può essere e può restare falsamente positivo per anni, il criterio per decidere se e quando riprovare a reintrodurre il latte. Viceversa si vedono spesso bambini assurdamente tenuti a dieta senza latte e derivati per molti anni solo perché l’esame del sangue (che come detto non ha importanza!) continua a essere (falsamente) positivo.

In conclusione i bambini con problemi gastroenterologici (diarrea, vomito, scarsa crescita, scarso appetito, etc.) non vanno messi a dieta solo perché gli esami del sangue sono positivi. Gli esami del sangue risultano positivi in tantissimi bambini del tutto sani e non hanno nessun rapporto con questo tipo di sintomi.

Allo stesso modo non si deve escludere, nei rari effettivi casi di diarrea o scarsa crescita etc. da latte, il ruolo del latte stesso solo perché il test risulta negativo. Il meccanismo è un altro!