La diarrea acuta (enterite)

La diarrea, notoriamente, è l’emissioni di feci non perfettamente formate, disfatte, talora francamente liquide, solitamente più volte al giorno. A ciò si deve accompagnare una compromissione della crescita per perdite o mancato assorbimento di sostanze nutritive a livello dell’intestino. Quest’ultimo punto è importante perché qualora si considerasse diarrea soltanto l’emissione di feci liquide si correrebbe il rischio, come spesso accade, di interpretare come diarroiche le feci liquide, talora verdastre e schiumose, emesse, spesso in maniera esplosiva dal piccolo lattante alimentato al seno le quali viceversa rappresentano un evento di assoluta normalità.
La diarrea può essere acuta (enterite, enterocolite) oppure persistente o cronica a seconda della sua durata.
Nel corso della diarrea, sia essa acuta che cronica, si pongono in atto spesso provvedimenti dietetici che se talora sono giustificati, come nella celiachia o nella diarrea da latte vaccino, non sempre tuttavia sono necessari.
La diarrea acuta è generalmente legata ad agenti infettivi, più virali che batterici, e si accompagna sovente ad altri sintomi come i dolori addominali, il vomito (gastroenterite), la febbre.
Il problema della diarrea acuta, nei casi in cui non siano presenti anche manifestazioni di infezione generalizzata (sepsi) come può accadere nelle enteriti da salmonella, è principalmente quello della disidratazione. Compito principale del medico e dei genitori del bambino è quello quindi di evitare questa disidratazione in attesa che, spontaneamente, la diarrea cessi.
Infatti usualmente la diarrea acuta (enterite) tende ad autolimitarsi entro un certo numero di giorni (solitamente al massimo 5-6) e non richiede altri trattamenti.
Nella diarrea acuta, con l’eccezione di forme particolari nel lattantino molto piccolo, non sono necessari antibiotici né di utilità dimostrata appaiono i cosiddetti fermenti lattici (Enterogermina e similari). Solo una funzione cosmetica, inoltre, hanno alcuni farmaci a base di caolino (Streptomagma) o di diosmectite (Diosmectal) i quali se da una parte determinano un consolidamento delle feci emesse dall’altra parte non agiscono sull’autentico problema che è rappresentato dalle perdite idriche intestinali.
Quindi è indispensabile che il bambino beva a volontà in modo da riequilibrare le perdite idriche; sono disponibili soluzioni glucosaline da sciogliere nell’acqua che permettono di integrare anche le perdite di elettroliti che avvengono nel corso della diarrea. Le soluzioni preparate vanno, come detto offerte a volontà se possibile in ragione di almeno 100 ml. di soluzione per evacuazione.
La sospensione dell’alimentazione è necessaria soltanto nelle primissime fasi in cui si provvede alla reidratazione del bambino, e soltanto per poche ore. Dopo la brevissima sospensione il bambino, che deve continuare a reidratarsi per via orale, può rialimentarsi se vuole e lo può fare del tutto liberamente. In pratica, nella realtà dei fatti, considerato che tra l’altro il bambino con diarrea rifiuta nella fase acuta il cibo, la sospensione dell’alimentazione non avviene affatto.
Nel bambino con diarrea acuta, quindi, tranne che nel lattantino di pochi mesi (meno di tre), non va modificata l’alimentazione precedentemente seguita e non va somministrato alcun latte dietetico per le diarree.
Eppure è di constatazione quotidiana che piccoli bambini con enterite vengano per periodi anche di giorni alimentati solo con liquidi e che quando, tardivamente, vengono rialimentati questo generalmente viene fatto con diete senza latte vaccino e con latti speciali. Questi comportamenti trovavano una loro spiegazione in opinioni che col tempo hanno dimostrato di essere infondate.
– La sospensione dell’alimentazione non è di utilità alcuna ma ci sono molteplici prove che la rialimentazione precoce, dopo poche ore di reidratazione, accorcia la durata della diarrea.
– Il motivo per cui molti bambini venivano e vengono tuttora messi, nel corso dell’episodio diarroico acuto, a dieta senza latte non è legato ad un supposto effetto lesivo del latte od ad un suo ruolo nel determinarsi della diarrea acuta. Il motivo per cui veniva consigliata la sospensione del latte era il timore che, nel corso della diarrea acuta, con la parete dell’intestino infiammata, l’assunzione del latte artificiale o di centrale potesse indurre una condizione di intolleranza al latte con conseguente persistenza nel tempo della diarrea.
Questo meccanismo è reale ma opera soltanto nel lattante molto piccolo, sotto i tre mesi, per fattori legati alla immaturità della parete del suo intestino. Nel bambino più grandicello il meccanismo dell’intolleranza al latte (alle proteine o allo zucchero, il lattosio, in esso contenuti) acquisita nel corso della diarrea acuta non esiste. Anzi per quanto riguarda la cosiddetta intolleranza al lattosio successiva all’enterite acuta e responsabile di persistenza della diarrea essa non si realizza praticamente mai, a qualsiasi età. Non hanno pertanto alcuna razionalità latti caratterizzati da scarso o assente contenuto di lattosio propagandati e prescritti come latti dietetici per le diarree (HN25, AL110).

Come si cura la diarrea acuta?

La diarrea acuta quindi non si cura, nel senso che non esistono farmaci che in qualche modo possono bloccare o ridurre in maniera significativa i tempi della malattia. Nella diarrea acuta quindi
– non sono necessari, se non in casi particolari, antibiotici o disinfettanti intestinali, fermenti lattici, farmaci che ispessiscano, cioè rendano l’aspetto delle feci più solido senza d’altra parte ridurre le perdite di liquidi a livello del tubo intestinale;
– non è utile la sospensione prolungata della alimentazione, anzi la rialimentazione precoce, dopo alcune ore (4-5) di reidratazione, assicura tempi di diarrea meno lunghi;
– ciò che è necessario è soltanto la terapia reidratante per via orale allo scopo di controllare o impedire la disidratazione in attesa che la diarrea, spontaneamente, si concluda (“la diarrea è un fuoco che si spegne con l’acqua”).
– può essere utile per contrastare eventualmente il vomito che impedirebbe la somministrazione di liquidi per bocca l’uso di farmaci antivomito (antiemetici) e talora la terapia sintomatica dei dolori addominali con antispastici intestinali.
– antibiotici intestinali possono essere utili quando la diarrea si protrae oltre i limiti normali e si possa sospettare come causa del suo protrarsi un’infezione sopraggiunta da germi particolari (germi anaerobi) a livello della parte alta dell’intestino tenue (sindrome dell’intestino infetto o diarrea cronica postenteritica o colonizzazione alta del tenue), ma solo dopo che siano trascorsi i giorni usuali di durata della diarrea acuta.

E’ importante la dieta nella diarrea acuta?

Solo in alcuni casi e in funzione dell’età del bambino. – Nel lattante al di sotto dei tre mesi è possibile che nel corso della diarrea acuta, virale o batterica, si possa determinare una condizione di acquisita intolleranza alle proteine del latte vaccino. Il latte vaccino, cioè di mucca, è l’alimento da cui vengono preparati industrialmente i latti artificiali con cui vengono alimentati i lattanti. Per tale motivo in questi bambini è opportuno sospendere il latte artificiale usualmente assunto ed alimentarli con latti speciali senza proteine del latte o con le proteine stesse idrolizzate, cioè frammentate e ridotte in maniera dare da ridurre la capacità di indurre intolleranza o allergia.
– Nel bambino più grande questo meccanismo di intolleranza acquisita difficilmente si realizza né, d’altra parte, esiste una qualsiasi altra motivazione per sospendere il latte vaccino. Ragion per cui nel bambino oltre i tre mesi con diarrea acuta non è necessario cambiare il tipo di alimentazione ma, dopo la fase di rapida reidratazione orale in cui, in poche ore, si cerca di rifornire il bambino dei liquidi perduti, il bambino volendo, può rialimentarsi precocemente con gli stessi alimenti e lo stesso latte che assumeva in precedenza. E’ importante che in questa fase il bambino oltre ad alimentarsi normalmente continui a riparare le perdite di liquidi assumendo sempre almeno 100 ml di soluzione glucosaline per ogni scarica diarroica.

Che cos'è il reflusso gastroesofageo (RGE o GER)

Anche il reflusso gastroesofageo, pur essendo una condizione reale, è di “moda”. Ne è dimostrazione il fiorire di latti cosiddetti A.R., antireflusso, che viceversa, come vedremo, non trovano vere indicazioni nel trattamento di questa condizione. Per reflusso gastroesofageo si intende, come appunto dice il termine, il refluire, il tornare indietro verso l’esofago, del materiale contenuto nello stomaco, latte, muco, acidi. Questa situazione è dovuta fondamentalmente al rilassamento inappropriato del LES (sfintere esofageo inferiore) cioè del meccanismo che “tappa” lo stomaco ed impedisce, in condizioni normali, il ritorno verso l’alto delle sostanze in esso contenute. Si tratta di un fenomeno frequente e praticamente quasi normale nel piccolo lattante che però, in determinate situazioni, può essere responsabile di una condizione di malattia.
E’ indispensabile, quindi, in primis, distinguere nettamente il RGE funzionale, normale, e la malattia da reflusso gastroesofageo (MRGE o GERD).
Il bambino con RGE funzionale è il cosiddetto rigurgitante felice (happy spitter) il quale presenta soltanto un ritardo della maturazione del LES. Il rigurgitante felice è il lattantino che rigurgita, anche in maniera abbondante, anche a distanza dal pasto, ma lo stato di salute è buono e la crescita è normale. Sono i bambini che rigurgitano molto, hanno spesso eruttazioni e singhiozzo, spesso sembra quasi, quando sono sdraiati, che il latte gli torni verso la bocca e che loro quasi lo “ruminano”. Però, e questo è il fatto fondamentale, tali bambini stanno bene, crescono adeguatamente, non sono sofferenti, non hanno crisi di pianto se non quelle usuali dei piccoli lattanti. Ricordarsi che il bambino normale, normalmente piange e lo può fare, pur in assenza di malattie, anche 2-3 ore al giorno. Tuttavia spesso in questi casi è presente una stato di sofferenza e di ansia nei genitori, che interpretano il rigurgito e gli altri fenomeni come segni di “cattiva digestione”, e richiedono un intervento del pediatra. Frequenti sono in questi casi i cambi del latte, frequente l’uso di farmaci normalmente scarsamente efficaci.
Nella malattia da reflusso, viceversa, sono presenti sintomi più importanti che esprimono la presenza di complicazioni a carico dell’apparato digerente e dell’apparato respiratorio. Tali complicazioni sono determinate dal reflusso di acido verso l’esofago e verso le vie respiratorie. L’acido può determinare lesioni nella parte inferiore dell’esofago, quella immediatamente sovrastante lo stomaco (esofagite da reflusso gastroesofageo) o “l’irritazione” e anche di più delle vie del respiro.

Sono indicativi della presenza della malattia da reflusso:

– le crisi di pianto molto più intense di quelle usuali. E’ un pianto “rabbioso”, violento, che dura a lungo, inconsolabile;
– la disfagia, cioè il dolore che il bambino avverte quando deglutisce il latte. Il bambino spesso comincia a succhiare dal biberon ma dopo qualche deglutizione si distacca piangendo vigorosamente e spesso piangendo si inarca all’indietro e inarca indietro il collo. Questo modo di piangere, cioè il pianto in “opistotono” con l’inarcamento del tronco e del collo si chiama sindrome di Sandifer ed è espressione del dolore esofageo e dell’esofagite;
– il rifiuto dell’alimento,
– il ritardo della crescita,
– l’aumento della frequenza e dell’intensità del vomito,
– le crisi di apnea e di “quasi morte” o ALTE. Le crisi di “apnea ostruttiva” sono crisi di arresto del respiro in cui il bambino si comporta come se “qualcosa” bloccasse il respiro, è agitato, spesso si muove vigorosamente. E’ una evenienza terrificante per il genitore e frequentissimo motivo di corse disperate verso l’ospedale. Analogamente terribile per il genitore, e pericolosa, è l’esperienza di”quasi morte”. La madre trova il bambino praticamente inanimato in culla, immobile ed apparentemente senza vita e riesce solo con manovre concitate a farlo riprendere;
– l’asma, la tosse notturna e quando il bambino sta sdraiato, i disturbi respiratori fino alle cosiddette broncopolmoniti da inalazione del materiale refluito.

Il reflusso gastroesofageo è dovuto ad allergia al latte?

Il rapporto fra le due entità è certo: vi sono casi di RGE guariti solo con la dieta.Il RGE e l’allergia alimentare, in particolare al latte di mucca, cioè ai latti usualmente utilizzati per il lattante, che dal latte di mucca sono ottenuti, sono entrambi comuni nel primo anno di vita e presentano sintomi comuni come:

– il vomito,
– il rigurgito,
– lo scarso accrescimento,
– il dolore, cioè le crisi di pianto con caratteristiche, per intensità e durata, diverse rispetto al pianto “banale” del lattante,
– le apnee,
– le broncopolmoniti.

Si tratta di una specie di serpente che si morde la coda: da una parte è possibile che l’allergia alimentare possa favorire, con la gastrite allergica e l’alterazione dei movimenti dello stomaco, il reflusso gastroesofageo; dall’altra il reflusso può, a sua volta, favorire l’allergia attraverso le erosioni della regione esofagea inferiore e l’assorbimento delle molecole proteiche del latte.
Secondo alcune statistiche nel bambino molto piccolo il 42 % dei casi di RGE è indotto dalle PLV (proteine del latte vaccino).
Suggeriscono il RGE indotto dalle PLV:
a) la familiarità per malattie allergiche,
c) il ritardo della crescita,
d) la mancata risposta alla terapia adeguatamente condotta (ranitidina o omeprazolo e altri “inibitori di pompa”).
Non è necessario eseguire test allergologici perché, come detto nel paragrafo relativo all’allergia al latte, nel reflusso gastroesofageo così come in gran parte delle malattie da allergia al latte che interessano l’apparato digerente, i test sono più spesso negativi, sia quelli eseguiti sulla cute che quelli eseguiti sul sangue. Il vero test è, come sempre in questi casi, l’eliminazione di prova (test di eliminazione) del latte vaccino e la sua risomministrazione, dopo che si è ottenuto un miglioramento significativo. Questa, diciamo così, controprova (test di provocazione) dovrebbe, qualora il latte fosse veramente responsabile dei sintomi, indurre la ricomparsa dei sintomi di malattia da reflusso.
Quando quindi ricorrono quelle condizioni che suggeriscono un ruolo dell’allergia al latte è da eseguirsi direttamente il test di eliminazione delle PLV, preferibilmente con idrolisato totale (NeoCate o Pregomin AS) o anche con idrolisato spinto.
Nel RGE che non risponde al trattamento adeguato, farmacologico, posturale e d’ispessimento della dieta, o nei casi con scarso accrescimento, si deve sempre fare un test d’eliminazione delle PLV.

Come si fa la diagnosi

Per la diagnosi di reflusso gastroesofageo, non è necessario, in prima istanza, alcun accertamento né strumentale né di laboratorio, né sono necessari accertamenti allergologici. La diagnosi di reflusso è clinica ed emerge dall’insieme dei sintomi che il bambino presenta; il medico deve decidere solo se si tratta di reflusso banale o di malattia da reflusso e questo lo si desume dai disturbi che il bambino presenta.
Nella diagnostica del RGE si abusa viceversa di esami strumentali; c’è un’esagerata invasività anche e soprattutto a livello di strutture specialistiche. Un esame spessissimo eseguito, molto popolare al punto che sono gli stessi genitori spesso a richiederlo, è l’ecografia della regione esofago-gatrica. Orbene drasticamente si può affermare che non si deve mai richiedere ed eseguire l’ecografia nella diagnostica del reflusso perché non ha alcuna utilità dal punto di vista operativo. L’ecografia nella diagnostica del RGE ha vari limiti:
– è operatore-dipendente, cioè dipende molto dalle capacità d’interpretazione del medico che la esegue,
– è un test momentaneo, limitato nel tempo. Esso valuta, in altre parole, la presenza dei reflussi dallo stomaco verso l’esofago solo nel periodo limitato di tempo in cui si esegue l’esame. Il reflusso, viceversa, non è costante e non è presente in ogni momento ed è possibile che nei pochi minuti di osservazione con l’ecografo non se ne verifichi nessuno. Può quindi accadere che l’esame sia negativo e magari, non appena terminato, il bambino rigurgita e vomito, dimostrando praticamente che il reflusso dallo stomaco c’è ed eccome!,
– ma anche se l’esame fosse positivo, cioè rilevasse la presenza di reflussi nel periodo in cui viene eseguito, esso per il medico non ha alcuna utilità. Al medico non serve dimostrare la presenza del reflusso, che è già evidente in base al comportamento del bambino, ai rigurgiti, alle eruttazioni, alla ruminazione ecc.; il medico deve decidere solo se si tratta di reflusso banale o di malattia da reflusso e per questo, al contrario, l’ecografia non è discriminante, non è utile.

Quindi l’ecografia non è utile perchè la sua negatività non esclude la presenza di un RGE patologico così come la sua positività non aggiunge nulla a quello che il medico già sa in base alla storia del bambino ed ai suoi sintomi.
L’ecografia della giunzione esofago-gastrica può essere utile, in alcuni casi, per distinguere il RGE dalla stenosi ipertrofica del piloro, altra malattia del bambino molto piccolo che ha, a comune con il reflusso, il vomito come sintomo dominante o per evidenziare un’eventuale ernia dello stomaco al di sopra del diaframma (ernia jatale).
Degli altri esami, eseguibili solo in strutture specialistiche,
– la Phmetria computerizzata non è utilizzabile nei bambini piccoli; la Phmetria inoltre deve essere riservata ai casi di malattia da RGE importanti, complicati.
– con l’esame endoscopico (gastroesofagoscopia) si visualizzano certamente i caratteri della esofagite, ma l’endoscopia non può essere usata in prima battuta e in tutti i casi.

Queste indagini più approfondite presso strutture di livello superiore vanno riservate a casi veramente importanti e non rispondenti alla terapia, ai bambini con complicazioni serie.
Nella pratica ambulatoriale è autorizzato, nel sospetto concreto di malattia da reflusso, un tentativo ex juvantibus (test di prova) con antisecretivi (vedi dopo), senza ulteriori accertamenti.
Il criterio ex juvantibus può essere quindi utile. Per fare diagnosi bisogna però usare i farmaci contrastanti la secrezione acida (ranitidina e cosiddetti inibitori di pompa) e non i procinetici come il Plasil o il Peridon, che regolano i movimenti della parete dello stomaco. La malattia da RGE non si cura con i procinetici: è l’iperacidità nello stomaco che mantiene il reflusso, che dà l’esofagite e gli altri sintomi della malattia.
Quindi, in caso di sospetto reflusso patologico è inutile perder tempo con i procinetici, l’indicazione è per

_ la ranitidina (Ranidil o Zantac 10mg/Kg/die in 2 somministrazioni)
_ o per un inibitore della pompa protonica: omeprazolo (Losec), lansoprazolo (Lansox), esomeprazolo (Lucen).

Il miglioramento dei sintomi, la scomparsa delle crisi di pianto, del rifiuto del latte, con il trattamento confermano il sospetto di malattia da reflusso gastroesofageo. Va rilevato con questo trattamento scompaiono o si riducono i sintomi della malattia da reflusso ma non necessariamente il reflusso stesso: il bambino può continuare a rigurgitare, ad eruttare ecc. ma con il trattamento sta bene e piange come può piangere un bambino “normale”.

Come si cura

Nel reflusso funzionale, nel rigurgitante felice, non si dovrebbe fare alcun trattamento, né farmacologico né con i cosiddetti latti AR, antireflusso. I latti A.R. non sono validi dal punto di vista nutrizionale, sono poveri di grassi e di grassi polinsaturi e il rapporto calcio/fosforo non è adeguato alle esigenze del lattante.Si tratta di latti non adeguati all’ideale nutrizionale; è un trattamento puramente cosmetico, che riduce un evento, il rigurgito, del tutto normale, ma che rappresenta un peggioramento rispetto all’alimentazione normale.
Nei bambini con reflusso funzionale, i rigurgitanti “felici”, che stanno bene, non hanno crisi di pianto anormali e che crescono bene tutto quello che il pediatra dovrebbe fare è rassicurare e tranquillizzare i genitori. Si tratta di un fenomeno del tutto normale, destinato scomparire con l’età e che non significa affatto che il bambino non “digerisca” il latte.

Nella malattia da RGE viceversa il trattamento deve essere fatto e il trattamento con gli antisecretivi va protratto per almeno tre mesi. Tali farmaci non presentano significativi effetti collaterali.
Se alla sintomatologia da RGE si associa uno scarso accrescimento bisogna pensare alla allergia alle PLV: nel RGE se c’è cattiva crescita c’è allergia al latte assunto. L’accrescimento discrimina quindi fra i casi da seguire fin da subito con la sola dieta o meno.
Un altro fattore che deve indurre a pensare alla presenza di una allergia al latte è la mancata risposta al trattamento adeguato o la ripresa dei sintomi dopo un periodo di miglioramento indotto dalla terapia. In tutti questi casi oltre al trattamento con antisecretivi va aggiunta la dieta senza proteine del latte di mucca che in un secondo momento potrà essere, sospendendo i farmaci, il trattamento fondamentale.
La dieta si avvarrà quindi dell’uso di uno dei latti speciali per bambini allergici, preferibilmente gli idrolisati piuttosto che il latte di soia. Non hanno indicazione quindi, nemmeno in questo caso, i latti A.R., che sono fondamentalmente sempre latte di mucca, “lavorato” ma latte di mucca. In conclusioni i latti A.R. sono solo una trovata commerciale che non dovrebbe avere spazio nella dietetica del lattante, con reflusso patologico o no.
Può essere opportuno ispessire il latte, speciale o meno che sia, per renderlo più denso e quindi meno facilmente refluente dallo stomaco verso l’esofago e le vie respiratorie. Questo si può ottenere con prodotti appositi, come il Medigel, o aggiungendo al latte quantità adeguate di creme (di riso, riso, mais e tapioca ecc.). A questo scopo, ridurre il reflusso in quanto tale, possono essere usati i procinetici, fermo restando il concetto che non sono essi i farmaci della malattia da reflusso.
Infine il bambino dovrebbe essere posto non in posizione supina ma su un piano obliquo (terapia posturale) e in questo senso possono essere utili gli “ovetti” nei quali i bambini possono essere benissimo messi a dormire.

Percorso diagnostico

La prescrizione, l’esecuzione e soprattutto l’interpretazione dei test allergici richiedono un bagaglio culturale specifico e esperienza nel campo non potendosi tutto risolvere in una acritica meccanica operazione di prescrizioni farmacologiche e dietetiche in funzione dei risultati. Nel vivere quotidiano del pediatra allergologo è, viceversa, esperienza comune osservare esami allergologici consigliati per motivazioni del tutto non pertinenti, richieste di consulenze allergologiche non giustificate, test allergologici, soprattutto quelli sul sangue che molto spesso permettono di by-passare l’allergologo, valutati acriticamente senza tener conto, ad esempio, della stagionalità di certe patologie o della non significatività, soprattutto per certi valori, dei test per gli alimenti.
Il percorso diagnostico in allergologia deve essere rigoroso. Nell’iter diagnostico delle malattie allergiche i primi e principali passi sono, come sempre in medicina:

– l’anamnesi, cioè la raccolta delle notizie riguardanti la storia familiare e personale del bambino, la malattie pregresse in generale ed in particolare quelle attinenti al campo allergologico, la storia della malattia attuale, con i suoi caratteri, le caratteristiche della sua insorgenza, la sua stagionalità, qualora sia presente, i fattori scatenanti o accentuanti, gli effetti delle terapie, le malattie concomitanti.

– l’esame clinico, cioè un’accurata visita medica che oltre a valutare l’organo o l’apparato direttamente interessato non escluda la valutazione anche di altri apparati. Infatti, potrebbe essere possibile cogliere delle malattie concomitanti (all’asma, per esempio si associa spesso la rinite, e viceversa) o rilevare dei segni che permettono di inquadrare giustamente una certa malattia (ad esempio manifestazioni cutanee di dermatite atopica possono far interpretare come allergiche una tosse persistente, una diarrea cronica etc.). I test, cutanei o ematici, rappresentano un passo successivo nel percorso verso la diagnosi e non vanno interpretati come valori assoluti ma vanno valorizzati solo se inseriti in un contesto globale e se compatibili con i dati che emergono dall’anamnesi e dall’esame clinico.

Quali sono i test

I test usualmente impiegati in prima battuta sono test cutanei e sul sangue. I test cutanei sono i prick test. Essi consistono nel pungere la cute, con degli aghetti particolari, attraverso una goccia di liquido contenente la sostanza da testare posta sulla cute dell’avambraccio. Usualmente si testano più sostanze per ogni seduta. La risposta positiva al test consiste nella comparsa di un gonfiore (pomfo) misurabile. Il test si considera positivo, cioè il bambino è sensibilizzato a quella certa sostanza (si badi bene sensibilizzato e non necessariamente allergico, come si vedrà più avanti!) se il pomfo ha un diametro superiore ad un certa misura (determinazione quantitativa espressa in mm. di diametro); la valutazione può anche essere fatta comparando il diametro del pomfo relativo alla sostanza testata con quello di un pomfo di riferimento indotto da una sostanza chiamata istamina: in questo caso la positività è espressa con crocette secondo una scala prefissata (determinazione qualitativa). I test cutanei così descritti possono essere eseguiti non solo utilizzando “gli estratti”, soluzioni delle sostanze potenzialmente in grado di dare allergia, messi a disposizione dall’industria farmaceutica ma per gli alimenti si possono eseguire direttamente utilizzando gli alimenti stessi. In questi casi si parla di prick by prick. Questa tecnica viene usualmente utilizzata per frutta e vegetali (ma si può usare in realtà per qualsiasi alimento) e consiste nel pungere la cute dell’avambraccio dopo aver immerso l’ago nell’alimento stesso, se liquido, o dopo aver punto l’alimento da testare, se solido.
I test sul sangue dovrebbero essere eseguiti solo in quelle particolari condizioni, come ad esempio quando il bambino sta assumendo farmaci antistaminici o presenta malattie della pelle molto estese, o ha avuto delle reazioni allergiche molto gravi, in cui non possono essere eseguiti i prick test. Al di fuori di queste particolari situazioni per accertare la presenza o meno di una sensibilizzazione allergica si dovrebbero eseguire, prima di tutto, i prick. I test sulla cute sono cioè preferibili e ciò non solo per motivi economici ma anche perché con i prick si possono testare molte sostanze contemporaneamente, la risposta è praticamente immediata, e soprattutto perché si tratta di test più “specifici”. Meno frequentemente di quanto accada con i test sul sangue, in altre parole, può accadere che alla positività del test non corrisponda una vera allergia ma, viceversa, più spesso chi è positivo al test sulla pelle è veramente allergico. Con il test sul sangue si ricerca la presenza nel sangue stesso del paziente di particolari tipi di anticorpi, le cosiddette IgE specifiche, che sono coinvolte nelle reazioni allergiche di un certo tipo (cosiddette reazioni di I° tipo o IgE-mediate). La determinazione di queste IgE avviene con metodiche diverse (RAST, IMMUNOCAP, ELISA). La presenza nel sangue di IgE specifiche dirette verso una specifica sostanza viene espressa sia in termini numerici che secondo una classificazione in classi. Per semplicità si usa chiamare il test della ricerca sul siero di sangue di queste IgE specifiche per le varie sostanze con il nome della metodica usata; generalmente si usa parlare di RAST.
I RAST dunque consistono sostanzialmente nella dimostrazione della presenza nel sangue del paziente delle IgE specificamente dirette verso determinate sostanze potenzialmente allergizzanti (allergeni) e nella loro misurazione. Identico target hanno anche le metodiche cutanee. Sia i prick che i prick by prick, infatti, sono in grado di determinare la formazione del pomfo (cioè del gonfiore misurabile) solo se nella cute dei bambini sottoposti al test, attaccate a specifiche cellule chiamate mastociti, sono presenti le medesime IgE specifiche dirette contro le sostanze testate. In altre parole i RAST sono positivi se ci sono IgE specifiche nel sangue, i prick e i prick by prick se ci sono IgE specifiche nella pelle. Sono metodiche diverse per evidenziare in tessuti diversi la medesima sostanza: le IgE specifiche per determinati allergeni. Sono pertanto, come vedremo in seguito, test validi ed indicati per indagare un solo tipo di allergia, la allergia appunto detta IgE-mediata o di 1° tipo, quella, per intenderci responsabile di alcune forme allergiche immediate come l’anafilassi o l’orticaria. Ci possono essere però altri meccanismi alla base delle reazioni allergiche, indipendenti da codeste IgE, per i quali quindi questo tipo di indagini non ha alcuna utilità. Per esempio gran parte della patologia “allergica” gastrointestinale, dalla diarrea cronica al deficit di accrescimento, dalla malattia da reflusso gastroesofageo, alla stipsi non è normalmente sostenuta da un meccanismo allergico di tipo IgE-mediato per cui in queste malattie i test sono usualmente negativi, pur potendo gli alimenti essere responsabili dei sintomi clinici.
Per forme non IgE mediate ed, in particolare, per quelle forme allergiche in cui probabilmente è in gioco un meccanismo coinvolgente cellule particolari chiamate T linfociti, le cosiddette allergie cellulo-mediate o di IV tipo o ritardate, può essere utilizzato il patch test. E’ anch’esso un test cutaneo e viene utilizzato correntemente per la diagnosi della dermatite da contatto. Consiste nell’applicazione sulla pelle, in particolare sul dorso, di cerotti con cellette contenenti le varie sostanze da testare. I cerotti vengono lasciati aderenti alla cute per 48 ore e la lettura del test viene fatta a 48 e 72 ore. L’allergia cellulo-mediata a una qualche sostanza testata determina una reazione locale con arrossamento, gonfiore, formazione di vescicole che può essere quantificata con un punteggio da 0 a 3. In questo modo si può vedere se un soggetto con un particolare tipo di dermatite è allergico al nichel, alla gomma, ai coloranti dei tessuti etc.
Una metodica analoga viene utilizzata da qualche tempo (atopy patch test) per la dermatite atopica una frequente malattia cutanea in cui il meccanismo prevalente è spesso quello cellulo-mediato. Nel caso specifico vengono testati alimenti (latte, uovo, grano etc.) ed inalanti (acari) per valutare se questi allergeni, con una meccanismo diverso da quello delle allergie immediate IgE mediate possono essere, in qualche modo responsabili o corresponsabili della malattia. Si tratta di un test non routinario perché ancora non è stato standardizzato, codificato.
Qualcosa del genere può, in alcuni casi, essere utilizzato anche in altre malattie in cui la componente cellulo-mediata può essere preminente come in molte malattie gastrointestinali “allergiche”.

Il test positivo non sempre significa allergia

La sensibilizzazione, cioè la presenza di IgE specifiche nei confronti di allergeni inalatori e soprattutto alimentari, che si manifesta con la positività dei test cutanei e dei RAST, non necessariamente si accompagna a manifestazioni cliniche di malattia allergica, per quanto rappresenti uno gradino indispensabile verso la comparsa della malattia stessa. Ancora più lontana nella scala che porta alla malattia allergica è la condizione di atopia, cioè la tendenza, ereditaria, genetica, alla produzione delle IgE, invece degli altri tipi di anticorpi, nei confronti di sostanze alimentari od inalanti presenti nell’ambiente (antigeni ambientali).
Sull’altro versante, come spesso si verifica nelle allergie agli alimenti, l’acquisizione dello stato di tolleranza, vale a dire la scomparsa di reazioni all’assunzione dell’alimento in precedenza nocivo, può precedere la scomparsa della sensibilizzazione, cioè della positività ai test, che potrebbe non avvenire mai. Per tale ragione il test di prova della tolleranza agli alimenti, dopo un periodo della dieta di esclusione, va eseguito, a prescindere dalla persistenza o meno della positività dei test, non appena la valutazione della storia clinica del bambino, l’età, trasgressioni dietetiche casuali senza reazioni permetteranno di ipotizzare che il bambino sia diventato tollerante. Il bambino cioè prima perde l’allergia e poi perde la sensibilizzazione.
Quindi la positività del test non necessariamente significa allergia. Ovviamente è però difficile che un test fortemente positivo per un certo allergene inalatorio o alimentare sia presente in un bambino che non abbia alcuna reazione all’esposizione ad essi; maggiormente positivo è il test più facilmente esso si accompagna ad una vera allergia e non ad una semplice sensibilizzazione.
La non assoluta corrispondenza fra positività del test e presenza di una autentica condizione di allergia è particolarmente vera per gli alimenti e per alcuni di essi in particolare. Per tale motivo, tranne in casi particolari, la positività delle prove cutanee o dell’esame sul siero, magari eseguiti per motivazioni del tutto arbitrarie, non può e non deve determinare, sic et simpliciter, la sospensione anche per lunghi periodi dell’alimento. La positività del test deve cioè essere confermata sul piano pratico: la sospensione dell’alimento nei confronti del quale il bambino risulti positivo al test deve accompagnarsi ad un netto miglioramento dei disturbi per i quali si è sospettata l’origine allergica e, in seguito, la reintroduzione di esso deve determinare la ricomparsa di disturbi significativi, anche se non necessariamente identici ai precedenti (“test di eliminazione” e “test di provocazione”).
In questo modo si potrà apprezzare che per ambedue le metodiche (Prick e RAST) in relazione agli alimenti
– la probabilità che alla positività del test correli una autentica presenza di malattia allergica, cioè il valore predittivo positivo (VPP), è molto bassa,
– mentre, al contrario, è elevata la probabilità che alla negatività del test correli una autentica assenza di malattia allergica di tipo IgE mediato, cioè il valore predittivo negativo (VPN).

VPN e VPP dei test cutanei e delle IgE specifiche seriche per latte, uovo, pesce, soia, arachidi, cerali
VPN VPP
Prick circa 100% <20%
IgE specifiche >97% <30%

In altre parole, per questi allergeni, che sono i principali allergeni alimentari dell’età pediatrica, un test negativo esclude virtualmente la diagnosi di allergia alimentare IgE mediata e permette di somministrare con tranquillità l’alimento senza timore di reazioni importanti. Il test negativo però non permette di escludere, come si vedrà in seguito, la presenza di una allergia non IgE mediata; in ogni caso si tratterebbe, però, di reazioni non subitanee e violente ma lente e ritardate come tipico delle allergie cellulo-mediate.
Diverso è il discorso per l’eventuale positività che, come si può desumere dai dati, solo in una minore percentuale dei casi esprime una vera malattia allergica mentre nella maggior parte di essi esprime soltanto una sensibilizzazione senza sintomi corrispondenti.